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di Eleonora Montesanti
Che meraviglia, quando la musica ha fiducia nel mondo!
Sulla testa dell’elefante è un album che, senza avere la presunzione di insegnare nulla, osserva l’universo in maniera attiva, cercando di uscire dai suoi stessi confini. E lo fa con semplicità, delicatezza e coraggio: l’ultimo lavoro della Bottega Baltazar è un’opera collettiva, il cui scopo è essere la voce di tutti. Ma non solo: la sua energia è circolare, poiché gioca a scambiare le carte in tavola, a mettere gli uni nei panni degli altri, cercando la bellezza nei particolari dell’umanità.
L’album è nato e si è sviluppato sul Monte Summano, nelle Prealpi vicentine, durante un vero e proprio ritiro che la band ha deciso di affrontare: l’opportunità di stare in bilico sulla testa di un elefante e di avere un punto di vista sospeso tra la pianura urbanizzata e la natura incontaminata delle vette più alte, ha dato loro modo di creare dieci tracce poetiche, evocative e intrise di saggezza. Due sono le peculiarità più evidenti di questo disco: la prima è il linguaggio artigianale e metaforico, a volte dialettale, a volte addirittura inventato; la seconda, invece, è la musica, messa a servizio dei contenuti, per renderci più empatici durante l’ascolto.
Se proprio è necessario trovare un genere o una categoria dove inserire queste canzoni, che narrano di paesaggi geografici e umani, sarebbe da qualche parte tra il folk e la canzone d’autore, ma ciò che conta davvero sono le sensazioni, mentali e fisiche, che queste melodie riescono ad evocare.
Sulla testa dell’elefante si apre con una chitarra acustica che, con un ritmo simile a quello delle onde che si infrangono sulla spiaggia, fa partire il brano A colloquio con i nembi. Qui il concetto di polvere siamo stati, polvere ritorneremo assume un’accezione più sognante: siamo fatti dello stesso materiale delle nuvole, siamo polvere innamorata. Si ritrova poi un’atmosfera simile in pezzi come Il sogno del gatto Melville, denso di poesia scaturita dalla semplicità delle descrizioni, o nella struggente Bussarti alla finestra con la neve, una ballata dove la disperazione di un amore non corrisposto si trasforma in dolcezza. La stessa dolcezza che proviamo per La smortina innamorata: col suo linguaggio fresco e ingenuo, suscita una certa tenerezza per l’adolescente che non ha mai smesso di vivere in noi e che rispunta ogni volta che gli portiamo un fiore di speranza.
L’equilibrio tra realismo e immaginazione è evidente soprattutto in due canzoni: una è Drago bianco, che racchiude in sé una metafora molto toccante sull’arrivo dell’eroina negli anni ’80 e sull’incapacità di gestirne gli effetti. L’altra è Rugby di periferia, dove lo sport rappresenta la reazione coraggiosa agli urti della vita. Si parla di periferia perché questa è una storia di persone semplici, che affrontano la vita senza parastinchi, imbottiture o allenamenti. La cosa più importante è non essere da soli: insieme si resiste / divisi cadiamo.
Una nota speciale la merita Osteria all’antico termine, brano che rappresenta al meglio la poetica musicale della Bottega Baltazar: il pezzo inizia con dei fiati che ci accompagnano – neanche troppo dolcemente – in una dimensione onirica, fiabesca ma non rassicurante, una sorta di bosco incantato pieno di pericoli che ci costringono a stare all’erta. Nei panni dell’eroe percorriamo i sentieri, osserviamo quel che ci circonda e ci imbattiamo nello spirito di un fante morto durante la prima guerra mondiale: è pazzesco quanto la melodia somigli davvero a una battaglia!
In un disco di storie che raccontano l’uomo in un contesto storico e geografico, è impossibile non toccare argomenti più vicini al sociale: la Bottega Baltazar, all’interno di questo ritratto dell’umanità, affronta un tema importantissimo, quello delle migrazioni. Il messaggio è cristallino, ma non banale: Venite adoremus è un brano il cui testo andrebbe letto tutte le mattine prima di uscire di casa, poiché ci ricorda che il presepe, quello che facciamo tutti gli anni a Natale, non è altro che la storia di una famiglia di emigranti in fuga e in cerca di un luogo sicuro dove far nascere il loro figlio. Foresto casa mia, invece, chiude l’album con un invito meraviglioso: provare a sentirsi forestieri nel proprio paese vuol dire guardarlo sempre come se fosse la prima volta; dunque sentirsi compagni di viaggio di chi c’era già e, soprattutto, di chi sta arrivando ora. Insomma, mettersi gli uni nei panni degli altri, perché in realtà i confini non esistono: casa nostra è tutto il mondo.
Sulla testa dell’elefante è un disco che vale la pena non solo di ascoltare, ma da cui è fondamentale lasciarsi travolgere, poiché dà la possibilità di guardarsi con occhi diversi, con occhi brillanti, con occhi migliori.
Che meraviglia, quando la musica ha fiducia nel mondo!